Alle Radici dell’uomo
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- Pubblicato Venerdì, 11 Novembre 2011 00:00
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Alle Radici dell’uomo
Il reporter televisivo Davide Demichelis parla della sua esperienza nel campo della comunicazione e dell’ esplorazione dell’uomo Davide Demichelis è un cercatore di spazi di vita.E’ un attento documentarista che ha collaborato con diverse testate giornalistiche anche europee, racconta i rapporti con l’uomo e l’ambiente. Prima Il regno degli animali, conduttore Giorgio Celli, poi Il pianeta delle meraviglie, con Licia Colò, e ancoraTimbuctù, Ilaria D’Amico, Sveva Sagramola,fino ad arrivare a Radici. Davide De Michelis è una persona naturalmente curiosa ed affascinata dalle meraviglia del mondo ed utilizza il linguaggio audiovisivo per dare voci alle varie forme di vita,alle culture,con un taglio scientifico ed oggettivo, per divulgare l’altra faccia della medaglia, gli altri aspetti,spesso, sconosciuti che generano luoghi comuni sia sugli uomini che sugli animali. L’ultimo impegno è Radici. ( Il nostro sito ne aveva già parlato vedi: http://www.legambientecorato.it/index.php/notizie/575-l%27altra-faccia-dell%27immigrazione). È un viaggio nel mondo dell’immigrazione,in cui sono protagonisti gli stessi immigrati, ma in direzione contraria, alle radici di una vita: di Rosita, boliviana, studentessa a Bergamo e protagonista della prima puntata; poi di Mohamed, marocchino, sindacalista a Bologna; di Nela, bosniaca, attrice a Roma; di Magatte, senegalese, musicista a Torino. Sono stranieri giunti in Italia tanti anni fa, che ora tornano a far visita a casa, nel Maghreb, in America Latina, in Europa orientale, in Africa nera. “Radici”è un programma di Rai3 che andrà in onda per quattro venerdì a partire dal 11 novembre (in seconda serata, dalle 23,00 circa), D: Quale viaggio o esperienza l’ ha maggiormente colpito in questi anni? R: E' difficile rispondere... Posso dire che il viaggio che più mi ha coinvolto risale al 1995, quando sono andato in Sudan, sui Monti Nuba. E' stata un'esperienza straordinaria: entravamo in una zona isolata dalla guerra. Da una quindicina di anni non vedevano uno straniero, in quella magnifica regione nel centro del Sudan: un'immensa spianata di savana protetta da montagne che spuntano come funghi. Ho trascorso una settimana con una quarantina di guerriglieri, armati fino ai denti, perché ci accompagnava il comandante regionale, Yusuf Kuwa, un uomo straordinario, che nonostante la divisa e le armi che brandiva, era una persona di grande umanità. L'unico comandante militare africano, fra i tanti che ho conosciuto, con queste doti. Questo viaggio per me ha costituito un'occasione straordinaria, forse irripetibile, di incontro con l'Africa vera, e soprattutto con la sua gente. Era già da qualche anno che viaggiavo in quel continente, ma dai Monti Nuba sono tornato con il mal d'Africa cgaloppante...oltre che con la malaria. Dulcis in fundo, il documentario che ho girato in quella regione, è stato trasmesso anche dal National Geographic. Tutto è bene quel che finisce bene, no? D: Come è nata la sua passione per i viaggi? R: Per caso, come capita un po' a tutti, credo. I primi viaggi li ho fatti con i miei genitori, prima in tenda, poi in roulotte e quindi in camper. La curiosità, la voglia di scoprire mondi nuovi e conoscere persone, culture e anche la voglia di raccontare tutto questo mi hanno spinto a fare in modo che questa diventasse la mia occupazione. Come per magia, questo è accaduto. Oggi vivo (faticosamente, credimi) di questo bruttisimo mestiere, ma è sempre meglio che lavorare... D: E quella di documentare? R: Eh, come ti ho appena detto, è nato tutto insieme. Il film "Into the wild" di Sean Penn, che racconta le avventure di un ragazzo americano che si perde nelle terre selvagge dell'Alaska, fino a morire di stenti solo in un vecchio pullman abbandonato nel cuore del nulla, si conclude con questa frase, scritta su un pezzo di carta dal protagonista, in punto di morte: "la felicità è autentica solo se condivisa". Ecco, io la penso come lui: vivere un'esperienza per tenermela dentro, sarebbe come viverla a metà. Il mestiere mi aiuta a viverla fino in fondo, per poterla poi condividere con il pubblico D: Quali sono le fasi principali della documentazione? R: Cercare, vivere e raccontare. La ricerca la si fa tutti i giorni, leggendo giornali, libri, guardando la tv, navigando su internet, parlando con le persone. Il mondo è grande e c'è sempre l'aspirazione a conoscerlo tutto, o almeno il più possibile. Vivere, perché un viaggio va vissuto, fino in fondo! Con i suoi sapori e saperi, i panorami che abbiamo la fortuna di ammirare e le persone con cui abbiamo il privilegio di scambiarci esperienza, o anche solo quattro parole, uno sguardo. Chi viaggia vive due volte, si dice. Ma per me un viaggio è anche fare una passeggiata al mercato, nella mia città, guardare i volti della gente. Cerco sempre di farlo, anche quando ho le borse piene della spesa che mi strappano le braccia. E poi raccontare. Cosa, a quale pubblico e soprattutto come, questo è il dilemma. Quasi tutto si può raccontare, ma non è facile capire come sia meglio farlo, pensando al pubblico a cui ci si rivolge. Io ho lavorato per programmi di prima, seconda serata, del mattino e del pomeriggio per la tv per ragazzi. A seconda del pubblico, il linguaggio cambia, e molto. Se vogliamo comunicare, siamo noi a dover entrare nel linguaggio della gente, non possiamo pretendere che avvenga il contrario. Troppo spesso, secondo me, i documentari sono lenti, difficili, noiosi. Questo lo considero un grave limite culturale, diffuso fra chi fa il mio mestiere, che allontana il pubblico da questo genere di televisione. Il documentario secondo me dev'essere accattivante, veloce, leggero e ovviamente bello, ben scritto. Non è facile attuirare l'attenzione del pubblico quando sulle altre reti vanno in onda fiction, calcio o programmi che fanno grandi ascolti. Ma possiamo e dobbiamo riuscirci. Io inquesto mi impegno più che posso. Credo che sia impegno da cui nessun comunicatore si può esimere D: Come è nata l'idea di Radici, il suo programma in onda su Rai Tre che racconta l'altra faccia dell'immigrazione? R: Da un viaggio, neanche a dirlo, che ho fatto nel 1997 nelle Filippine, nell'isola di Mindanao, a sud. Ero andato nel villaggio natale della responsabile della comunità dei filippini di Torino. Non avevo portato anche lei con me, non avevo i soldi per pagarle il viaggio, ma ero andato a documentare cos'era cambiato nel villaggio in seguito alla sua emigrazione in Italia. Era stato un bel servizio, e così l'ho proposto anche a Rai Tre. Ci sono voluti ben sette anni per arrivare al dunque, ma alla fine ce l'abbiamo fatta! Nella formula attuale però il viaggio si fa con l'immigrato, che è una sorta di guida d'eccezione che ci porta a conoscere il suo Paese sia dal punto di vista turistico che sociale. D: Che cosa può emergere da questo programma? R: Io vorrei soprattutto che emergessse l'umanità degli immigrati, di queste persone che incrociamo per strada, che vediamo a scuola, al lavoro, al bar, ma di cui spesso non sappiamo nulla. Poi emergerà quello che vuole anche il pubblico. Può essere la dimensione dell'esotico, dei Paesi che andiamo a conoscere, il viaggio, la cultura, la cucina o l'ambiente. Non importa! L'importante, secondo me, è che al pubblico a casa arrivi la percezione di come tutto il mondo è Paese. Vedi, io vivo a Nichelino, nella prima cintura di Torino. Una volta era un piccolo paese, ora è una città. E' esplosa negli anni '70, con l'immigrazione che ha portato migliaia di persone dal sud Italia, per andare a lavorare in Fiat. Io ho vissuto la mia infanzia fra gli immigrati che con mille difficoltà (e ancora non del tutto) si sono ormai integrati nella nostra realtà. Il salto di qualità per favorire la convivenza viene dalla consapevolezza che siamo tutti uguali. Ci sono volute alcune decine di anni, ma ci siamo arrivati, o quasi. Ecco, credo che la stessa cosa dovrebbe avvenire anche con gli immigrati che arrivano dall'estero, anche se sarà molto più difficile, perché sono portatori di culture molto più diverse dalla nostra. Comunque, il primo passo è vincere la paura, la paura dell'altro. E per vincere quella paura bisogna conoscere. Abbiamo paura di quello che non conosciamo. Radici vuole essere un piccolo ma significativo contributo a vincere la paura dell'altro attraverso la consocenza, facendo perno sulla curiosità. E' un viaggio che ci porta dall'altra parte del mondo, ma anche dentro di noi. Perché, com'è noto, si conosce per differenza. Vedendo altri, diversi da me, conosco meglio anche me stesso. Io ho imparato e capito molte cose,anche di me stesso, viaggiando il Bolivia, Marocco, Bosnia e Senegal, dove abbiamo girato le prime quattro puntate di Radici. Spero che sia così anche per chi guarda il programma! Giuseppe Faretra